Che cosa significa oggi fare una bella fotografia? Che cosa significa bello? Nella nostra epoca il concetto di bello o di vero è legato all’immaginario visivo rappresentato dall’inondazione quotidiana di immagini cui veniamo, nostro malgrado, sottoposti attraverso i media: milioni di fotografie ci percorrono da parte a parte, come un flusso di corrente continua, che non ci permette più di distinguere alcunché. In questa dimensione, a volte, si rischia di perdere il contatto con la realtà. Chi è disposto ormai ad ascoltare o guardare in modo veramente diverso? E poi in cosa può consiste questa ipotetica diversità? Perché, ad esempio, il bello non può riferirsi ad un sentimento interiore espresso attraverso immagini che rimandino a una memoria lucida, che permette di vivere il presente? Il passato in fotografia è spesso considerato “classico” e così vengono etichettati a volte molti lavori senza che vi sia una vera analisi dell’immagine perché spesso il termine di paragone è la fotografia di documentazione, dunque l’oggi frenetico, quello che accade qui e ora.
“Avrei potuto fotografare i mostri che minacciano lo Xingn, ma così avrei ripetuto storie già conosciute. Invece ho ripreso quello che abbiamo dimenticato: bellezza e armonia. Ho fotografato quello che vedevo”.
Indipendentemente dal progetto che sta dietro queste parole pronunciate da Sebastião Salgado, ciò su cui mi pare opportuno soffermarsi è questo concetto, così chiaramente espresso dal fotografo brasiliano, della “dimenticanza” di bellezza e armonia.
La bellezza e l’armonia Salgado le trova nelle tribù amazzoniche più arcaiche ma a volte sono molto più vicine a noi di quanto non pensiamo, nascoste dietro quel disordine quotidiano che la folle corsa commerciale ci propina come rappresentazione della vita. Qualche volta è sufficiente fermarsi a “guardare”, osservando veramente, concedendosi il tempo per farlo, sembrano concetti banali ma non lo sono, piano piano si otterrà una immagine sempre più nitida e questa immagine alla fine rappresenterà il “vero” che è in ognuno di noi e che abbiamo dimenticato.
Per questo considero di grande importanza la frequentazione della memoria, e rimango ogni volta piacevolmente stupita di fronte a tutte quelle persone che osservando un paesaggio, magari nemmeno tanto stupefacente tecnicamente, semplicemente vero così come lo vediamo con l’occhio interiore, ne rimangono rapiti. Cosa succede all’anima di chi osserva queste immagini? Esse sono state guardate nel profondo da chi le ha scattate e perciò vanno a toccare una corda altrettanto profonda in chi le osserva.
Un esempio molto semplice per capire il concetto di tempo e quello che mette a confronto la cultura orientale con quella occidentale. Qualunque cosa, nell’arte orientale, gode di un tempo di osservazione largamente superiore a quello occidentale. Occorre capire che tale porzione di tempo non è sprecata. Spesso siamo affascinati nel constatare la capacità naturale di un orientale di rendere bello e armonioso il dipinto di un paesaggio montuoso o i segni grafici della scrittura eppure non capiamo che tutto ciò è possibile grazie proprio a quella porzione di tempo “ascoltato” che, si badi bene, non vuol dire più lento solo più attento.
Non è necessario attraversare gli oceani per scoprire nuove realtà: basta avvicinarsi ai propri luoghi con gli occhi di chi li vede per la prima volta, senza quell’aria di conquista costantemente presente nelle nostre vite. A questo proposito dovrebbe farci riflettere come due dei fotografi italiani più importanti, Luigi Ghirri e Mario Giacomelli, siano celebri in tutto il mondo pur non avendo quasi mai fotografato al di fuori della propria terra, essi hanno lavorato con il “giusto tempo” sui luoghi che avevano attorno a sé. Riuscire a ritrarre in fotografia questo può a buon credito considerarsi arte.
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Il termine, 10 settembre per l'iscrizione, al workshop con la docente Giovanna Gammarota "UNA QUESTIONE DI ASCOLTO".